Tutto quello che ho imparato sulla terapia grazie ai Soprano, Mad Men e alla terapia stessa

Vado in terapia da diverso tempo. Non so se mi ha reso una persona migliore, ma sicuramente mi ha dato modo di ragionare molto sulla terapia in sé, fino a generare 5 teorie al riguardo che Unobravo non vi direbbe mai:

1) In my Tony Soprano era

Incazzarsi con il/la terapeuta che vi segue è normalissimo. D’altronde, ci incazziamo con perfetti sconosciuti che ci mettono un secondo di troppo per uscire dal parcheggio che stiamo bramando, figuriamoci se non possiamo prendercela con la persona a cui raccontiamo i fatti nostri una o più volte a settimana.

Io di solito mi incazzo perché non coglie il contesto. Magari sto insultando qualcuno che ritengo mi abbia fatto un torto, e la mia psicologa ha la fastidiosa abitudine di cercare di mostrarmi la vicenda da un’altra prospettiva. Ehi, ma da che parte stai, mi viene da dirle? Chi è che ti scrive per spostare le sedute mille volte a causa del lavoro, della vita, del gatto, e poi piange in seduta perché è troppo che non ti vede e nelle ultime due settimane ne ha subite/combinate di cotte e di crude? Io o quell’altro spregevole individ… ah, ok posso capire che stia dalla parte dell’altra persona.

A parte gli scherzi, per essere sicura che abbia il quadro generale di tutta la situazione, mi sforzo tantissimo di dipingere alla mia terapeuta tutto quello che è successo con dovizia di particolari (forse troppi). E a volte sento che mi capisce in pieno, mentre altre volte sento che ha travisato qualcosa. È un processo di riallineamento continuo, a volte un po’ snervante: sto cercando di dire, con questo, che quando andate in terapia non dovete aspettarvi un guru illuminato che ogni cosa trascende. Da parte vostra, non basta solo lanciare un amo sperando che il pesce abbocchi: it takes two to make a tango, ma pure la terapia.

2) Silenzio stampa

Il punto numero uno mi porta dritto al punto numero due: poco prima della terapia, puntuale come il ricordo della ceretta all’inguine 5 minuti prima di stendersi sul lettino dell’estetista e la mia voglia di involtini primavera in preciclo, nella mia testa appare un pensiero luminoso come un’insegna al neon: “Non mi va di parlare dei miei problemi” Non mi, non mi va, non mi va. Soprattutto se ho passato una giornata particolarmente stancante al lavoro: già ho parlato tutto il giorno, ora vorrei solo spararmi una birretta, ma che ho fatto di male nella vita, eh Gesù? E poi dover ripercorrere, ad alta voce, tutte le piccole e grandi storture che mi danno filo da torcere nel quotidiano? Oh no, il mio povero cervelletto non ne può più. E pago anche per questa tortura! Che loca!

Sì, ma poi mi basta solo entrare in quella maledetta stanza ovattata e confortevole per rovesciare senza tanti complimenti tutto quello che ho in mente addosso a quella santa donna che mi ascolta con calore ed empatia. Questo miscuglio di emozioni mi ricorda quando, prima di cominciare una allenamento, sento di dover predisporre la mia mente pensando che il magnifico rilascio di endorfine post allenamento vale la pena di tutta la fatica. Idem per la terapia: dopo mi sento sempre come se avessi spurgato una ferita, e sapendo che mi farà sentire meglio evoco questa sensazione prima della seduta cercando di combattere la pigrizia mentale.

E faccio il parallelismo con l’allenamento non a caso: durante le sedute mi sento come se stessi rinvigorendo la mia mente, allenandola a essere il più chiara e obiettiva possibile per esporre alla mia psicologa uno scenario oggettivo. E mentre le consegno le mie parole, sentendomi più leggera, ci pongo allo stesso tempo particolare attenzione, per capire se e come affinare ciò che le dico. Forse è deformazione professionale, dato che lavoro con le parole, ma sono fermamente convinta che andare in terapia serva anche a imparare come organizzare i propri pensieri, come selezionarli e illustrarli. Con il risultato di avere la mente più sgombra, almeno per un po’.

3) La durata della terapia

So che molt* decidono di non intraprendere un percorso di terapia perché ne temono la durata: tuttavia percorsi del genere hanno tempistiche davvero variabili. Ad esempio, una persona a me vicina ha fatto un percorso di pochi mesi per risolvere una problematica specifica, mentre io sto in terapia da più anni. Cosa che per lungo tempo mi ha fatto sentire come un fallimento: pensavo che non sarei mai stata una persona risolta, ovvero la mia più grande ambizione, ma che avrei fatto sempre fatica a vivere come gli altri, almeno finché non sarei uscita dal limbo della terapia.

Il fatto è che come essere umani siamo sempre abituati a guardare avanti, e iniziamo qualcosa con l’obiettivo di finirlo, soprattutto se riguarda la terapia: ci sentiamo rott* e non vediamo l’ora di essere aggiustat*. La terapia, però, è refrattaria come un animale selvatico a questa nostra tensione verso il domani, dato che per definizione ci fa accartocciare su noi stessi facendoci scavare di brutto nel nostro passato (perché ricorda: è sempre colpa dei tuoi genitori).

Inoltre, la mia psicologa mi dice spesso di fermarmi per contemplare tutte le cose che sono riuscita a migliorare, invece di concentrarmi sugli ostacoli rimasti; tuttavia, la verità nient’affatto consolatoria che vi posso offrire oggi è che su questi ostacoli che mi bloccano continuerò a lavorarci chissà per quanto ancora. E forse non li aggirerò mai, ma dovrò semplicemente imparare a conviverci: perché quello che mi hanno insegnato la mia psicologa e quel capolavoro di Mad Men è che l’obiettivo della terapia non è diventare dei prodotti da supermercato perfettamente lustrati, ma accettare di essere un po’ ammaccati e di poter finire su Too good to go: ma questo vuol dire che siamo comunque meritevoli di essere scelti. E pensate che… potremmo persino arrivare ad amare le nostre ammaccature!!! Assurdo!

4) Terapia non fa rima con epifania

Non esistono epifanie nella terapia. Mi dispiace, ma è così: non c’è un momento da film, in cui il/la terapeuta dice qualcosa di saggio e all’improvviso tutta la nebbia si dirada per far spazio alla luce della conoscenza suprema di noi stessi. Si tratta, invece, di un lavoro faticoso e certosino, in cui lo scalpello che utilizziamo può far volar via al massimo qualche scheggia di luce. Queste poi si possono ricomporre per dar vita a un quadro del nostro passato (perché ripeto: tanto è sempre colpa dei nostri genitori) e del nostro presente, ma bisogna star lì, chinati insieme al/alla terapeuta che vi tiene la torcia e vi dice “Uè, ma parlami della tua infanzia!”.

5) Change is good

Questo è un punto più doloroso, perché lo sto vivendo io stessa. A volte, anche se so che può essere ok stare in terapia per più tempo, e che non si tratta di una sconfitta, mi chiedo se magari non sia arrivato il momento di cambiare psicologa. Se forse, ormai, con la mia terapeuta non ci conosciamo troppo bene e non c’è più nulla che possa fare, nonostante senta che ho ancora alcuni nodi da sciogliere.

Anche in questo caso una persona che conosco bene ha vissuto questa situazione, scegliendo di cambiare il proprio psicologo perché ormai sentiva che non c’era più nulla che potessero fare insieme, nonostante ci fosse rispetto e stima da entrambe le parti. Può succedere: a diversi momenti può corrispondere una persona diversa che che getti nuova luce su problemi invecchiati male come i pinocchietti di jeans. La vita evolve, noi evolviamo, e la terapia che seguiamo lo fa insieme a noi. 

Ma sapete, vero, cosa non cambierà mai, nei secoli dei secoli amen? Che la colpa è SEMPRE dei nostri genitori ❤ Scherzo vvb anche se mi fate spendere un sacco di soldi.