Di detective tristi e maledetti, di casi intricati e famiglie incasinate: in breve, ecco a voi True Detective 3
Era da tempo che non attendevo con ansia la nuova puntata di una serie TV, complice il fatto che su Netflix e company tutti gli episodi sono lì già belli e pronti che ti aspettano (vi ricordate quando guardavamo le serie in streaming, ignorando il termine binge-watching? Polizia, se mi leggi: uso il pluralis maiestatis solo per esigenze narrative).
Perciò guardando True Detective 3 ho fatto un salto nel passato, dato che Sky ne rilasciava un paio di episodi a settimana, lasciandomi a smaniare per giorni nell’attesa delle puntate seguenti. Già, l’autore storico di True Detective Nic Pizzolatto è riuscito a ripetere il piccolo miracolo della prima stagione: ha dato vita a una serie decisamente coinvolgente che viaggia di nuovo dal particolare al generale, partendo da un crimine commesso in una zona periferica e dimenticata da Dio per arrivare a ragionare sulla società intera… ma altrettanto dimenticata da Dio.
In effetti il promo per la seconda stagione di True Detective era “We get the world we deserve” e sicuramente we deserve un mondo orrendo secondo la visione del caro Nic (questo è l’unico riferimento che farò riguardo a quella brutta, brutta stagione).
Nella terza stagione i due detective Wayne Hays e Roland West (interpretati rispettivamente da Mahershala Ali e Stephen Dorff) indagano sulla sparizione di Julie e Will Purcell, avvenuta negli anni ’80 in una cittadina desolante dell’Arkansas.
La narrazione si snoda in seguito su tre piani temporali diversi, ma ci mostra sostanzialmente come i due detective non riescano ad andare avanti negli anni, gravitando sempre attorno a quel caso in apparenza irrisolvibile: Pizzolatto sfrutta quindi lo stereotipo del “Vero Detective” (figura di cui avevo parlato brevemente in questo post) che diventa ossessionato da un’indagine, ma lo fa per innalzarlo a rappresentante della natura umana. Perché sì, tutti noi ci evolviamo nel corso della vita, eppure gli episodi più significativi del nostro passato continuano a plasmare chi siamo oggi, influenzando anche il nostro rapporto con gli altri.
Di fatto anche le persone vicine a Hays e West vengono colpite dalla loro ossessione. E così ritorniamo di nuovo all’utilizzo e al superamento di un altro cliché: di solito in questi racconti vediamo la famiglia del detective tormentato che subisce le conseguenze del suo tormento, e siamo già pronti a rassegnarci sapendo che lui e la moglie – relegata sullo sfondo e utile ai fini della storia solo per rimbrottare il compagno – divorzieranno e i suoi figli lo detesteranno per questo.
In realtà questo accade solo a Roland West (tranne la parte sui figli, dato che non ne ha avuti), mentre Wayne Hays e la sua consorte Amelia (Carmen Ejogo) riescono infine a trovare un modo per salvare il proprio matrimonio.
Inoltre, Amelia non è affatto la classica figura femminile che ci viene propinata in queste situazioni, anzi. Finalmente vediamo una “Moglie del detective” che oltre a rimbrottarlo è parte attiva del caso; Amelia scriverà infatti un libro sul caso Purcell, arrivando spesso per conto suo a conclusioni importanti riguardo l’indagine.
Questo causerà delle lotte accese tra lei e Wayne, che nel frattempo è stato allontanato dal caso: potete quindi immaginare la tempesta d’inadeguatezza e invidia che lo pervade, tempesta che si rivela essere tra le parti meglio scritte della serie. In generale ho apprezzato moltissimo il modo ricco di sfumature con cui viene tratteggiato il rapporto ambiguo tra Amelia e Wayne, e del resto non poteva che essere così, in quanto la loro storia d’amore è strettamente legata al caso Purcell.
Ovviamente anche Tom e Lucy Purcell (interpretati da Scott McNairy e Mamie Gummer), genitori dei bambini scomparsi, subiscono le conseguenze nefaste del caso, ma non nella maniera che ci saremmo potuti aspettare. Di solito le famiglie in questo genere di serie crime rimangono un po’ in disparte, andando a rappresentare simbolicamente il Dolore, o lo spettro dell’indagine che il Vero Detective non riesce a portare a termine.
Invece in True Detective 3 i genitori Purcell, come Amelia, risultano un meccanismo dinamico della storia. Tramite le loro figure nello specifico Pizzolatto sembra voler dimostrare una verità molto amata dagli psicanalisti: siamo ciò che siamo a causa delle nostre famiglie. E nella serie questo principio acquista un significato particolarmente letterale.
Dal generale al particolare, stavolta: durante la visione della terza stagione crediamo di seguire un’indagine che si spande a macchia d’olio, arrivando a diventare un complotto vastissimo. In realtà, alla fine scopriamo che la verità era molto più ridotta e vicina di quel che credevamo; non bisognava guardare a una fitta rete criminale, bensì a un ginepraio famigliare.
Perciò il colpo di scena dell’ultima puntata funziona, sebbene soffra di un’eccessiva frettolosità e di un carattere posticcio nella messa in scena, sensazione che a volte ho provato guardando anche altri episodi di True Detective 3. Del resto si tratta di una cifra stilistica comune un po’ a tutte le stagioni della serie ideata da Nic Pizzolatto, soprattutto per quanto riguarda i suoi investigatori un tantinello esagerati e in possesso di un’allure epica che dice allo spettatore: “ehi, sto portando sulle mie spalle tutto il peso del mondo, forse lo avrai notato dal mio alcolismo. O dal mio sguardo perennemente corrucciato. O dal fatto che sono un lupo solitario, baby”. Allego qui sotto esempio di sguardo corrucciato.
Però, se la serie TV si chiama True Detective un motivo ci sarà, e risiede nell’omaggio a quel filone letterario e poi cinematografico chiamato hard-boiled, dove un detective duro e puro rimane invischiato più del necessario nel crimine su cui sta investigando, il quale di solito ha a che fare con mondi patinati al cui interno avvengono fatti dall’indicibile morbosità.
Esattamente come nel film Il grande sonno con Humphrey Bogart, caposaldo del genere, o in True Detective 3. Ed essendo io molto affascinata da questa tipologia di narrazione, perdono facilmente l’amore per l’artificiosità da parte di Pizzolatto.
Inoltre, come dicevo sopra, non è che l’autore si limita a utilizzare i cliché del genere, ma spesso ci gioca per portare oltre gli stilemi delle tipica serie crime. E per me questo è il mix ideale, perché mi piace riconoscere le citazioni di film del passato in lavori contemporanei, mi fa sentire parte di una grande famiglia cinefila; al contempo, però, ho anche voglia di vedere nuove sperimentazioni.
Sarà per questo che la terza annata di True Detective mi è piaciuta così tanto. Ok, e anche perché c’era Mahershala Ali: lo trovo un attore pazzesco. Mahershala, se mi leggi come la polizia di cui sopra, sappi che ti amo. So persino scrivere il tuo nome senza googlarlo.